Non esiste nessun demiurgo - parte 1

Ciao Volpe. Ora che ti sei laureata e puoi subire smottamenti, ti confesso un segreto: non esiste nessun demiurgo.
Quello che tu attribuisci a una figura mitica è la proiezione di ciò che magari vorresti essere, o forse in cui riponi un eccesso di stima. Sta di fatto che il "demiurgo" è il complemento di ciò che sei. Ciò che non sei lo proietti in qualcosa di metafisico, oppure in esseri - seppur fisici - comunque ritenuti possessori di capacità soprannaturali. Questo può essere in qualche modo un meccanismo che aiuta in momenti difficili. Alla lunga, però, rischi di delegare una tua realizzazione a soggetti terzi, quand'anche inesistenti, provocando quindi un'inibizione delle tue possibilità. Mi dispiace scombussolare un tuo pensiero, ma - nelle funzioni che mi attribuisci - ci sarà pure quella di dissolvere i veli che ammantano il reale... no?



Vorrei raccontarti una storia di "emancipazione", sperando che ti aiuti a metabolizzare il concetto. Per tutta una serie di motivi, appena approdato alle scuole rivestii il ruolo di "debole", una persona con cui non avere nulla a che fare se non per dileggiarla o dietro interesse. Queste dinamiche si sono riprodotte anche fuori dalla scuola, nei parchi e per la strada. Fenomeni di bullismo non ce ne sono stati, sono io che decidevo di subire certe vessazioni: nel mio mondo ideale non capivo perché gli altri dovessero comportarsi male con me e, quindi, proiettavo questa idea nel materiale, alimentando le contraddizioni per il puro gioco di evidenziarle. Un "porgi l'altra guancia" consapevolmente sbagliato e masochista, buono solo a crogiolarmi nella mia supposta giustezza e superiorità morale. Mi presi delle scazzottate anche pesanti per i miei standard, ma fortunatamente senza conseguenze a lungo termine...
...A parte una cicatrice in fronte che mi feci spaccandomi la testa nella palestra delle medie. Volevo scansarmi la moda del momento, uno schiaffo in fronte chiamato "frontalino", ad opera di un filosofo musicista che ogni tanto vedo ancora. Presi in pieno uno spigolo vivo.
Quello che in realtà più mi faceva soffrire era l'emarginazione. Provavo a farmi "accettare" facendo leva su interessi in comune, ma non funzionò instaurare nemmeno rapporti "di comodo". Questo ruolo mi si è calzato per tanto tempo e ho dovuto trovare la mia strada - appunto - per l'emancipazione.
A un certo punto, in quarta elementare, un compagno di classe e alcuni conoscenti del circondario mi proposero di far parte di un gruppo per un gioco misterioso. Si chiamava "Dungeons & Dragons" (sotterranei/segrete e draghi), un gioco con carta, penna e dadi ma profondamente diverso dagli altri giochi da tavolo. I giocatori prendono il ruolo di ("interpretano") un gruppo di avventurieri in un medioevo fantastico, dove schermaglie, sortilegi e creature soprannaturali attentano alla sopravvivenza: un high fantasy sword-and-sorcery con reminiscenze - talvolta veri e propri "saccheggi" - dalle varie leggende e mitologie della storia dell'umanità.
Ci sedevamo intorno a un tavolo - io, Giuseppe, Marco, Puciccio, Alessio, Luca - a casa di Marco. Francesco, anche lui al tavolo e molto più grande di noi, si premurava di raccontarci il mondo in cui i nostri avventurieri ("personaggi") erano immersi, e di rendere la loro vita difficile scaraventandoci ogni avversità contro. Un ruolo - quello di Francesco - temuto e rispettato, a cui il gioco riserva il titolo di "Dungeon Master". "Padrone dei Sotterranei" può essere una traduzione, ma si tratta di un titolo riduttivo se si considera che il Dungeon Master crea, governa, scompiglia il mondo in cui gli avventurieri sono immersi, prendendosi cura pure di interpretare gli altri personaggi della storia: dal mendicante del villaggio all'abominio dei tuoi incubi fattosi carne per ingurgitarti. Una sorta di arbitro e giudice al di sopra perfino delle divinità del gioco.
Le angherie che subivo nella vita reale erano nulla rispetto ai pericoli fittizi che dovevamo superare. Con la differenza che sotto lo stesso cielo ci si feriva assieme (e si moriva) molto più di frequente che nel mondo ovattato in cui vivevamo. Per noi che venivamo da una classe dove la violenza era "sublimata" - si trattava almeno di piccola borghesia, impiegatizia o artistica - ci si poteva far male solo con i contrasti al pallone o con delle scaramucce: inezie rispetto a quello che devono sopportare quotidianamente i bambini di Quarto Oggiaro/Vallette/Scampia (e questo senza andare troppo lontano).




Il gioco mi ha entusiasmato fin dall'inizio, mi ricordo che non dormivo la notte perché aspettavo trepidamente la sessione successiva. Cosa sarebbe successo? Ce la saremmo scampata? Puntualmente però il mio fantasticare e le aspettative altrui sul gioco non collimavano, visto che il gruppo era di scalmanati e lì sfogavano le loro frustrazioni. A cominciare da quell'Alessio - una persona che ricorre nei miei post - il cui personaggio era un combattente nerboruto che menava il mio maghetto rachitico nelle peggiori polle di veleni psicotropi. Gli altri personaggi ridevano compiaciuti.
Questi comportamenti erano però un po' giustificati dalle meccaniche di gioco e dai personaggi che i miei compari avevano scelto di interpretare: tutti erano "caotici"e io ero l'unico "legale"... Il mio primissimo personaggio - Tassadar - sopravvisse giusto due sessioni, era stato sbranato da un lupo mannaro e per questo motivo fui costretto ad abbandonare il gioco per un po'. Per il secondo - Eldrad - andò diversamente, e dimostra come questa cosa del "legale" me la sono portata fino alla tomba, di quel personaggio e di quel gioco.
Stavamo camminando in cunicoli umidi e ramificati verso le profondità della terra. Uno stridio, ripetuto, si faceva sempre più forte e si avvicinava verso di noi. (continua)

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